I misteri della Valle d’Amplero e le tombe degli antichi guerrieri marsi [foto e video]
Nessuno potrebbe mai sospettare che i fitti boschi poco distanti dal piccolo comune di Collelongo (AQ) nascondano segreti di valore inestimabile e pagine di storia antica ancora non del tutto decifrate. Eppure i colli che a nord est del borgo abitato circondano l’area piana di Amplero, a sud dell’ex bacino del Fucino, furono terra attiva e vitale fin dal VI secolo a. C., rivelando tracce degli antichi popoli autoctoni, ben prima dell’arrivo dei romani nel territorio abruzzese.
LA FILOSOFIA DI MONTAGNE SELVAGGE
L’area archeologica, scoperta a metà dell’ottocento, divenne oggetto d’indagine approfondita alla fine degli anni sessanta dello scorso secolo proprio in virtù dei resti notevoli di volta in volta rinvenuti, che permisero all’Università di Pisa di individuare, nei decenni a seguire, un’ampia area fortificata sul colle detto La Giostra. Quello che la campagna di scavi del 1978 portò alla luce permise di comprendere una volta di più il mondo e le attività cultuali del popolo degli antichi marsi, anime guerriere che vissero queste valli che ancora ne portano il nome da secoli.
Le radici fresche di una quercia non più giovane si fanno largo tra i massi del muro di cinta, senza tuttavia riuscire a scomporlo. È qui che gli antichi Marsi giungevano in pellegrinaggio cercando conforto nella dea guaritrice del loro bosco. Alcuni hanno ipotizzato fosse una dea madre, protettrice della fertilità e della prole, perché scolpita nell’argilla intenta ad allattare il proprio figlioletto. Altri ne parlano come della dea Diana, perché nell’area sacra de La Giostra venne alla luce una statua con i suoi attributi e i suoi vestimenti. Forse entrambe le dee vivevano questi luoghi ed accoglievano fedeli?
Qualunque sia stato il vero volto della divinità di questi luoghi una cosa resta certa: chi arrivava al suo tempio poteva di certo invocare conforto, ma senza orma di dubbio andava in cerca di risposte anche più concrete.
Possiamo immaginare la sorpresa degli archeologi quando, scavando pazientemente l’area riservata al culto, hanno portato alla luce una sorta di deposito votivo realizzato direttamente nel banco di roccia: all’interno, uno dopo l’altro, emersero dalla terra dei secoli quei doni che gli offerenti portavano con se con l’intento specifico di legarsi alla dea ben più solidamente che con la sola preghiera. L’uso degli ex voto, infatti, praticato ancora ai giorni nostri e particolarmente sentito in prossimità di luoghi di culto noti e meta di pellegrinaggio, affonda le proprie radici in tempi ben più lontani. Il mondo pagano, ad esempio, conosceva bene questo curioso modo di rendere omaggio ex voto suscepto appunto, ovverosia “secondo la promessa fatta”, e portavano alla divinità statuine in terracotta che rappresentassero l’organo per cui, dopo aver chiesto, avevano ottenuto un visibile e prodigioso miglioramento in seguito ad una malattia o ad un grave problema di salute.
Questo non era affatto, dunque, un luogo come tanti: i contadini resi inoperosi per qualche infortunio, i giovani sposi in attesa d’un figlio che non sembra arrivare, i soldati feriti in battaglia e lontani dalle proprie schiere… arrivavano su questo colle pieni di speranza, come potevano, molti salendo a qualunque costo, nonostante le evidenti menomazioni fisiche. Entravano passando il muro di cinta in opera poligonale esattamente da dove potremmo entrare oggi noi, nello stesso punto, lì dove un atrio porticato poco distante davanti ai nostri occhi apre l’accesso ai tre vani del Santuario.
Qualcuno recava con sè la riproduzione in terracotta del proprio organo risanato da lasciare alla dea per grazia ricevuta appunto, qualcun altro veniva per riconciliarsi con la divinità, altri ancora avevano altro da chiedere e portavano una statuina da lasciare, scolpita in modo da rappresentarli in tutto e per tutto, perché potessero restare lì per sempre, nell’area sacra di Amplero accanto alla dea, per mezzo di quella piccola miniatura di se stessi.
Poco lontano dall’area della cosiddetta Giostra, lungo la valle naturale che dalla piana di Amplero risale a nord fino alla piana Fucense, cercando con pazienza tra i sentieri poco battuti della zona, la terra degli antichi marsi ci regala una seconda straordinaria sorpresa. All’improvviso, ripagati del lungo cercare, si arriva ad un luogo di sepoltura scampato al tempo, tra i due più importanti della zona: la cosiddetta Necropoli del Cantone.
Due grosse stele-porta aprono la via e danno il benvenuto ai passanti increduli che molto spesso finiscono col trovarle per puro caso. Sulla loro destra si apre un’area cimiteriale in uso dal IV al I secolo a.C. che può vantare almeno 50 sepolture di varie tipologie diverse, vero manuale all’aria aperta per studiosi e curiosi della materia. I corredi funebri recuperati, fortunatamente abbondanti e di ottima manifattura, sono esposti nella sezione archeologica del museo di Collelongo di Palazzo Botticelli e raccontano la vita di uomini e donne sepolti con le proprie vesti migliori e gli oggetti d’uso quotidiano. Da una di queste stanze ipogee proviene l’opera di maggior pregio: il celebre letto in osso intarsiato, datato fine II secolo a.C. inizio del I a.C., noto come Letto di Amplero, oggi custodito al museo archeologico di Chieti.
Arrivati fin qui, scorrendo una ad una queste lapidi, queste fosse ben allestite, affrescate o allineate con cura e decorate, un’unica domanda varrebbe la pena di porre a questi luoghi e a queste pietre: a chi appartennero le ossa dei marsi che per secoli avete ospitato? Quale donna, guerriero, bambino ha riposato al buio di queste stanze? Chi di loro, cercando di trattenerci davanti al proprio sepolcro, potrà beneficiare della nostra voce intenta a leggere, dopo secoli, il nome che li distingueva per rango e per gens allora?
E’ stato possibile recuperare solo pochissimi dei nomi impressi sulle cosiddette stele-porta, lapidi volutamente realizzate perché raffigurassero simbolicamente l’accesso all’Ade come una porta, appunto, a due battenti, talora con maniglie, sormontata da un timpano triangolare liscio o più raramente decorato col motivo di una luna crescente. Due di questi nomi sono arrivati pressoché intatti fino ai nostri giorni e possiamo leggerli oggi esattamente come avrebbero fatto gli antichi marsi ai loro tempi, esaudendo la preghiera dei due defunti: una donna, Instancia, figlia di Numerio, ed un uomo, Caio Ibiedio, figlio di Stazio. Entrambi varcarono la porta dell’oltretomba, scolpita nella pietra sotto il proprio nome, ma potranno rivivere, ancora ed ancora, ogni volta che qualche curioso passante, attratto da queste sacre pietre, vorrà fermarsi a pronunciare il loro nome.
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